Alterius non sit qui suus esse potest
Alterius non sit qui suus esse potest è una locuzione latina, tratta dalla favola esopiana De ranis (Delle ranocchie, serpente e legno)[1] il cui autore è un anonimo medievale che si potrebbe identificare con Gualtiero Anglico;[2] ha il significato di: Non appartenga ad altri colui che può appartenere a se stesso, nel senso che alla propria indipendenza non si deve mai rinunciare. Fu motto personale di Paracelso che lo fece apporre, anche in tedesco, sui suoi ritratti.[3]
Cicerone nel De re publica (libro III, 28) afferma similmente che «est enim genus iniustae servitutis, cum hi sunt alterius, qui sui possunt esse» (è ingiusto che cadano in servitù soggetti che per qualità ed attitudini dovrebbero invece essere liberi), intendendo con ciò che solo in tale raro caso la schiavitù poteva essere considerata ingiusta.[4]
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ Ottaviano Targioni Tozzeti e Torquato Gargani (a cura di), Delle ranocchie, serpente e legno, in Favole d'Esopo volgarizzate per uno da Siena, Firenze, Felice Le Monnier, 1864, pp. 62-65.
- ^ Giuseppe Fumagalli, n. 798, in Chi l'ha detto?, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1989, p. 230, ISBN 88-203-0092-3.
- ^ Fritz Mauthner, L'ateismo e la storia in Occidente, vol. 2, Roma, Nessun dogma, 2012, p. 31, ISBN 978-88-906527-5-2.
- ^ Chiara Buzzacchi, Uguaglianza e gerarchia nel mondo antico, in Carmela Russo Ruggeri (a cura di), Studi in onore di Antonino Metro, tomo I, Milano, Giuffré Editore, 2009, p. 331, ISBN 9788814152511.