Battaglia della foresta di Teutoburgo

Battaglia della Foresta di Teutoburgo
parte delle Guerre romano-germaniche
L'armata romana di Varo sorpresa nella foresta di Teutoburgo (oggi Kalkriese) nel dipinto Furor Teutonicus di Paja Jovanovic
Data8-11 settembre 9 d.C.
LuogoForesta di Teutoburgo (attuale Kalkriese)
EsitoDecisiva vittoria dei Germani, fine dell'espansione romana oltre il Reno
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
15 000 legionari e 8 000 ausiliariprobabilmente 35 000
Perdite
circa 15 000 uominicirca 5 000
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La battaglia della foresta di Teutoburgo, chiamata clades Variana ("la disfatta di Varo") dagli storici romani, si svolse nell'anno 9 tra l'esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, capo dei Cherusci (nonché ufficiale delle truppe ausiliarie di Varo). La battaglia ebbe luogo nei pressi dell'odierna località di Kalkriese,[1] nella Bassa Sassonia, e si risolse in una delle più gravi disfatte subite dai Romani: tre intere legioni (la XVII, la XVIII e la XIX) furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria.[2]

Tale fu il trauma provocato dalla sconfitta, che nell'esercito romano le legioni non ebbero più le numerazioni XVII, XVIII e XIX.

Per riscattare l'onore dell'esercito, i Romani diedero inizio a una guerra durata sette anni, che culminò nel 16 d.C. con le battaglie di Idistaviso e del Vallo angrivariano (considerate la rivincita dell'Impero romano contro i Germani), nelle quali Arminio fu definitivamente sconfitto. Al termine della campagna i romani rinunciarono a ogni ulteriore conquista nella Germania. Il Reno si consolidò come definitivo confine nord-orientale dell'Impero per i successivi 400 anni.

Contesto storico

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Lo stesso argomento in dettaglio: Occupazione romana della Germania sotto Augusto.

Dopo che Tiberio, figlio adottivo dell'imperatore Augusto, aveva completato la conquista quasi ventennale della parte settentrionale della Germania (con le campagne del 4-5), e domato gli ultimi focolai di una rivolta dei Cherusci, i territori compresi tra i fiumi Reno ed Elba apparivano ai Romani come una vera e propria provincia.

Poiché a Roma si pensava che ormai fosse arrivato il momento di introdurre nella regione il diritto e le istituzioni romane, l'imperatore Augusto decise di affidare a un burocrate, più che a un generale, il governo della nuova provincia: scelse dunque il governatore della Siria, Publio Quintilio Varo, ritenendo che un tale personaggio, certamente non noto per l'abilità bellica, potesse far cambiare le usanze secolari dei Germani, che non apprezzavano i modi rudi dei militari romani.

Ignaro di queste indicazioni e rivolgendosi ai Germani come fossero dei sudditi arresisi alla volontà romana, più che dei provinciali in via di formazione e romanizzazione, Varo ignorò il crescente rancore che covavano per l'invasore, problematica a cui invece avrebbe dovuto porre maggiore attenzione, tanto più che di esempi del passato ve ne erano in abbondanza, dal drammatico epilogo della vicina conquista della Gallia di 50-60 anni prima, alla recentissima rivolta delle genti dalmato-pannoniche.

Preludio alla battaglia: l'imboscata preparata da Arminio

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«[...] i soldati romani si trovavano là [in Germania] a svernare, e delle città stavano per essere fondate, mentre i barbari si stavano adattando al nuovo tenore di vita, frequentavano le piazze e si ritrovavano pacificamente [...] non avevano tuttavia dimenticato i loro antichi costumi [...] ma perdevano per strada progressivamente le loro tradizioni [...] ma quando Varo assunse il comando dell'esercito che si trovava in Germania [...] li forzò ad adeguarsi ad un cambiamento troppo violento, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli ad una tassazione esagerata, come accade per gli stati sottomessi. I Germani non tollerarono questa situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l'antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero. Pur tuttavia non si ribellarono apertamente [...]»

La provincia romana di Germania Magna nel 9

I Germani aspettavano solo il momento opportuno per ribellarsi e scrollarsi di dosso il peso insopportabile dell'invasore romano; tale momento sembrò arrivare agli inizi di settembre del 9 quando, al comando di tre legioni, alcuni reparti ausiliari e numerosi civili, Varo si era spinto in direzione nord-ovest, affidandosi alle indicazioni degli indigeni poiché non conosceva la regione.

«[...] Varo credeva che [i Germani] potessero essere civilizzati con il diritto, questo popolo che non si era potuto domare con le armi. Con questa convinzione egli si inoltrò in Germania come se si trovasse tra uomini che godono della serenità della pace e trascorreva il periodo estivo esercitando la giustizia [...] davanti al suo tribunale [...] ma i Germani, molto astuti nella loro estrema ferocia e fingendo [di essersi adeguati alla legge romana] indussero Varo ad una tale disattenzione ai problemi reali, che Varo si immaginava di amministrare la giustizia quasi fosse un Pretore urbano nel Foro Romano, non il comandante di un esercito in Germania [...]»

Era il settembre dell'anno 9, e Varo, finita la stagione di guerra (che per i Romani incominciava a marzo e finiva a ottobre), già si muoveva verso i campi invernali, che si trovavano a Haltern, sul fiume Lippe (sede amministrativa della nuova provincia di Germania), a Castra Vetera (l'attuale Xanten, lungo il Reno) e il terzo a Colonia (anch'esso sul Reno).

Il percorso abituale sarebbe stato quello di scendere dal fiume Weser (presso l'attuale località di Minden), attraversare il passo di Doren (le cosiddette porte della Vestfalia) e raggiungere l'alto corso della Lippe presso Anreppen, per poi proseguire fino a Haltern (la romana Aliso) e di qui al Reno.

La foresta di Teutoburgo nei pressi di Kalkriese
Ricostruzione del luogo della battaglia, con il terrapieno costruito dai barbari per imbottigliare le legioni di Varo

Al comando di tre legioni (la XVII, la XVIII e la XIX), reparti ausiliari (3 ali di cavalleria e 6 coorti di fanteria) e numerosi civili, Varo si spinse in direzione ovest, affidandosi alle indicazioni degli indigeni, poiché non conosceva né il nuovo percorso, né la regione. Egli non solo non sospettava che Arminio, principe dei Cherusci (il quale militava da anni nelle file dell'esercito romano tra gli ausiliari), stava progettando un'imboscata per sopraffare l'esercito romano in Germania, ma, al contrario, si riteneva al riparo dai pericoli, considerando Arminio un fedele alleato. Sia Velleio Patercolo sia Dione raccontano che Varo non prestò fede ad alcuno, incluso Segeste, futuro suocero di Arminio, che lo aveva informato dell'agguato:

«[...] Segeste, un uomo di quel popolo [i Cherusci] rimasto fedele ai Romani, insisteva che i congiurati venissero incatenati. Ma il fato aveva preso il sopravvento ed aveva offuscato l'intelligenza di Varo [...] egli riteneva che tale manifestazione di fedeltà nei suoi riguardi [da parte di Arminio] fosse una prova delle sue qualità [...]»

«[Varo] pose la sua fiducia su entrambi [Arminio ed il padre Sigimero], e poiché non si aspettava nessuna aggressione, non solo non credette a tutti quelli che sospettavano del tradimento e che lo invitavano a guardarsi alle spalle, anzi li rimproverò per aver creato un inutile clima di tensione e di aver calunniato i Germani [...]»

Il piano procedeva dunque come stabilito. Era stata anche simulata una rivolta nei pressi del massiccio calcareo di Kalkriese, nel territorio dei Bructeri, e Varo (senza dar credito alle voci sospettose circa un possibile agguato al suo esercito in marcia, su un percorso finora mai esplorato e all'interno di una folta foresta circondata da acquitrini) non utilizzò alcuna precauzione che lo mettesse al riparo da una possibile aggressione, facilitando il compito ad Arminio e ai suoi Germani.

«[...] il piano procedeva come stabilito. [Arminio e i suoi Germani scortarono Varo] [...] e dopo aver ottenuto il permesso di fermarsi ad organizzare le forze alleate per poi andargli in aiuto, presero il comando delle truppe [quelle nascoste nella selva di Teutoburgo], le quali erano già pronte sul luogo stabilito [per l'agguato] [...] dopo di ciò le singole tribù uccisero i soldati che erano stati lasciati a presidio dei loro territori [...] e poi assalirono Varo che si trovava nel mezzo di una foresta da cui era difficile uscire [...] e là [...] si rivelarono nemici [...]»

Forze in campo

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Lo stesso argomento in dettaglio: Esercito romano.
Lo stesso argomento in dettaglio: Kalkriese.

Varo disponeva di tre intere legioni: la XVII, XVIII e XIX,[3][4] oltre ad alcune unità ausiliarie (3 ali e 6 coorti), pari a circa 15 000 legionari e 5 000 ausiliari (a ranghi completi).

I Germani di Arminio potevano invece contare su circa 20 000/25 000 guerrieri delle tribù dei Cherusci, Bructeri, oltre probabilmente a Sigambri, Usipeti, Marsi, Camavi, Angrivari e Catti.

La foresta di Teutoburgo, in una giornata nebbiosa e piovosa, come doveva apparire alle legioni romane di Varo nei giorni della battaglia
Il possibile percorso di Varo, dalla porta Westfalica sul Weser, fino a Kalkriese dove lo attendeva Arminio per tendergli l'agguato

Primo giorno: l'attacco dei Germani nella fitta foresta

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Varo stava percorrendo un terreno estremamente difficile da superare con un esercito che, date le difficoltà oggettive del percorso, si era allungato a dismisura, per oltre tre chilometri e mezzo.

«[...] il terreno era sconnesso ed intervallato da dirupi e con piante molto fitte ed alte [...] i Romani erano impegnati nell'abbattimento della vegetazione ancor prima che i Germani li attaccassero [...] portavano con sé molti carri, bestie da soma [...] non pochi bambini, donne ed un certo numero di schiavi [...] nel frattempo si abbatteva su di loro una violenta pioggia ed un forte vento che dispersero ancor di più la colonna in marcia [...] il terreno così diventava ancor più sdrucciolevole [...] e l'avanzata sempre più difficile [...]»

E mentre i Romani si trovavano in serie difficoltà anche solo nell'avanzare in un territorio a loro totalmente sconosciuto, i Germani attaccarono.

Si trattava di una coalizione di popoli, sotto il comando di Arminio, che conosceva ottimamente le tattiche belliche romane, avendo egli stesso militato negli ausiliari durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9.

Arminio aveva predisposto con estrema cura tutti i dettagli dell'imboscata:

  • aveva scelto come luogo dell'agguato il punto in cui la grande palude a nord si avvicinava di più alla collina calcarea di Kalkriese, e dove il passaggio era ristretto a soli 80-120 metri;
  • aveva fatto deviare il normale tracciato della strada, con lo scopo di condurre l'esercito romano in un imbuto senza uscita;
  • aveva fatto costruire un terrapieno lungo circa 500-600 metri e largo 4-5, dietro cui nascondere parte delle sue truppe (concentrando sul posto non meno di 20-25 000 armati), lungo i fianchi della collina del Kalkriese (alta circa 100 metri), da cui potevano attaccare il fianco sinistro delle truppe romane.

«[...] i barbari, grazie alla loro ottima conoscenza dei sentieri, d'improvviso circondarono i Romani con un'azione preordinata, muovendosi all'interno della foresta ed in un primo momento li colpirono da lontano [evidentemente con un continuo lancio di giavellotti, aste e frecce] ma successivamente, poiché nessuno si difendeva e molti erano stati feriti, li assalirono. I Romani, infatti, avanzavano in modo disordinato nel loro schieramento, con i carri e soprattutto con gli uomini che non avevano indossato l'armamento necessario, e poiché non potevano raggrupparsi [a causa del terreno sconnesso e degli spazi ridotti del sentiero che seguivano] oltre ad essere numericamente inferiori rispetto ai Germani che si gettavano nella mischia contro di loro, subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante [...]»

Alla fine della giornata, dopo numerose perdite subite, Varo riuscì a riorganizzare l'esercito, accampandosi in una zona favorevole, per quanto fosse possibile, su un'altura boscosa.

Secondo giorno: la difesa di Varo e l'avanzata impossibile

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Il secondo giorno, dopo aver bruciato e abbandonato la maggior parte dei carriaggi e tutti i bagagli non necessari, i Romani avanzarono disposti in schieramenti più ordinati fino a raggiungere una località in campo aperto, non senza ulteriori perdite.

Di lì continuarono la marcia, ancora fiduciosi di potersi salvare; sapendo che nel viaggio avrebbero subito numerose nuove perdite e forse solo pochi si sarebbero salvati, la speranza era quella di avvicinarsi il più possibile all'accampamento di Castra Vetera sul fiume Reno, dove forse il legato Asprenate avrebbe potuto raggiungerli e salvarli.

L'esercito procedeva in zone boscose che sembravano interminabili, assalito senza pietà dagli uomini di Arminio, che conoscevano bene il terreno e non volevano permettere ai Romani di organizzarsi e schierarsi, dato che in campo aperto le legioni avrebbero prevalso certamente. Fu proprio in questo frangente che i Romani subirono le perdite maggiori, poiché, per quanto cercassero di serrare i ranghi, lo spazio era troppo limitato per farlo.

«[...] i Romani avevano serrato i ranghi in uno spazio assai stretto, in modo tale che sia i cavalieri sia i fanti attaccassero i nemici con uno schieramento compatto, ma in parte si scontravano tra loro ed in parte andavano ad urtare gli alberi [...]»

La mappa della disfatta di Varo, nella Selva di Teutoburgo

Terzo giorno: la morte di Varo e la strage dell'esercito romano

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Lo scontro tra le armate romane e Germani nella rappresentazione pittorica di Otto Albert Koch

Il terzo giorno fu l'ultimo e il più tragico per l'armata romana, ormai decimata dalla furiosa lotta dei giorni precedenti. La pioggia e il vento si erano scatenati nuovamente, impedendo ai soldati romani di avanzare oltre e di poter costruire un nuovo accampamento entro cui difendersi. La pioggia era talmente copiosa che avevano difficoltà a usare le armi, in quanto scivolose.

I Germani pativano di meno questa condizione, poiché il loro armamento era più leggero, e, anche per il fatto di conoscere meglio la zona, avevano la possibilità di attaccare e di ritirarsi velocemente nella vicina foresta con la massima libertà. L'eco della battaglia aveva inoltre dato morale alle vicine tribù barbare che, fiduciose per l'esito finale della battaglia, avevano inviato nuovi rinforzi e infoltito così il già cospicuo numero di armati germani. I romani, sempre più decimati e ormai ridotti allo stremo, erano ovunque circondati e colpiti da ogni parte, e non potevano più resistere alle forze germaniche.

«[...] per questi motivi Varo, e gli altri ufficiali di alto rango, nel timore di essere catturati vivi o di morire per mano dei Germani [...] compirono un suicidio collettivo [...]»

«[... Quintilio Varo] si mostrò più coraggioso nell'uccidersi che nel combattere [...] e si trafisse con la spada [...]»

Non appena si diffuse la notizia, molti soldati romani smisero di combattere preferendo uccidersi o fuggire piuttosto che venire catturati dai Germani. I resti dell'esercito romano erano ora allo sbando e sono raccontati episodi di coraggio alternati a quelli di codardia tra le file dei legionari di Roma.

«[...] Lucio Eggio diede un esempio di valore al contrario di Ceionio che [...] propose la resa e preferì morire torturato piuttosto che in battaglia [...] Numonio Vala, legato di Varo, responsabile di un fatto crudele, abbandonando la fanteria senza l'appoggio della cavalleria, poiché provò a fuggire con le ali di cavalleria verso il Reno, ma il destino vendicò questo suo gesto vigliacco [...] e morì da traditore [...]»

Rappresentazione della battaglia di Teutoburgo

«[...] Poiché i Germani sfogavano la loro crudeltà sui prigionieri romani, Caldo Celio [caduto prigioniero], un giovane degno della nobiltà della sua famiglia, compì un gesto straordinario. Afferrate le catene che lo tenevano legato, se le diede sulla testa con tale violenza da morire velocemente per la fuoriuscita di copioso sangue e delle cervella [...]»

«[...] nulla di più cruento di quel massacro fra le paludi e nelle foreste [...] ad alcuni soldati romani strapparono gli occhi, ad altri tagliarono le mani, di uno fu cucita la bocca dopo avergli tagliato la lingua [...]»

Gran parte dei superstiti vennero sacrificati alle divinità germaniche, e i restanti vennero liberati o scambiati con prigionieri germanici o riscattati, se è vero che durante la spedizione del 15 (sei anni dopo la disfatta) Germanico si fece ricondurre sul campo di Kalkriese avvalendosi dell'aiuto dei pochissimi superstiti della battaglia (gli unici che fossero in grado di indicare il luogo), per dare degna sepoltura ai resti dei commilitoni morti sei anni prima. E fu qui che vide lo scempio di un autentico massacro.

«[Germanico giunse sul luogo della battaglia, ove] nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa ammucchiate e disperse [...] sparsi intorno [...] sui tronchi degli alberi erano conficcati teschi umani. Nei vicini boschi sacri si vedevano altari su cui i Germani avevano sacrificato i tribuni ed i principali centurioni [...]»

Le reazioni immediate a Roma

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L'Hermannsschlacht (clades Variana), riproduzione di un dipinto monumentale di Friedirch Gunkel, andato distrutto nella Seconda guerra mondiale

La sconfitta fu certamente devastante. Tre intere legioni erano state annientate, insieme a circa 5.000 ausiliari e al loro comandante Publio Quintilio Varo.[2][5][6]

«[...] Varo, certamente uomo serio e di sani principi morali, rovinò se stesso ed un esercito magnifico per la mancanza di cautela, abilità, astuzia proprie di un generale, che per il valore dei suoi soldati [...]»

Lucio Asprenate, nipote di Varo e suo subordinato in Germania, accorreva con due legioni da Mogontiacum (Magonza), per scongiurare un'invasione germanica, salvare i superstiti e rafforzare gli animi incerti delle popolazioni galliche.

«[...] Meritevole di lode è anche il valore di un certo Lucio Cedicio, prefetto del campo di Aliso [l'odierna Haltern sulla Lippe] e dei soldati con lui rinchiusi, i quali furono assediati da soverchianti forze germaniche, ma superate tutte le difficoltà, che parevano insuperabili per la forza del nemico germanico [...] còlto il momento favorevole, si conquistarono con le armi la possibilità di ritornare tra i loro [...] [al di là del Reno, presumibilmente a Castra Vetera»

«I barbari si impadronirono di tutti i forti [che erano presenti sul territorio germanico] tranne uno [si tratta dello stesso episodio narrato da Velleio, di Aliso], nei pressi del quale furono impegnati, non poterono attraversare il Reno ed invadere la Gallia [...] la ragione per cui non riuscirono ad occupare il forte romano è da attribuirsi alla loro incapacità nel condurre un assedio, mentre i Romani facevano un grande utilizzo di arcieri, respingendo ed infliggendo numerose perdite ai barbari [...] e si ritirarono quando vennero a sapere che i Romani avevano posto una nuova guarnigione a guardia del Reno [si trattava probabilmente di Asprenate] e dell'arrivo di Tiberio, che sopraggiungeva con un nuovo esercito [...]»

L'Hermannsdenkmal, la statua in rame di Arminio, eroe nazionale tedesco, alta 26 metri, situata a Detmold nella regione westfalica

Svetonio racconta che lo shock di questa notizia, giunta a Roma a soli cinque giorni dal trionfo su Dalmati e Pannoni, sconvolse anche il vecchio imperatore, finora provato a tutto, e che da allora non volle più Germani accanto a sé:

«Quando giunse la notizia [...] dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: "Varo rendimi le mie legioni!». Dicono anche che considerò l'anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza.»

«[...] Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l'Italia e la stessa Roma.»

«[...] Augusto poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani [...] nella Guardia Pretoriana [...] temendo che potessero insorgere [...] li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città [...]»

Dopo questo grande successo militare, Arminio avrebbe infatti voluto passare al contrattacco, alleandosi con l'altro grande sovrano germano Maroboduo, il re dei Marcomanni, come ci racconta Velleio Patercolo:

«La crudeltà dei nemici germani aveva fatto a pezzi il cadavere, quasi completamente carbonizzato, di Varo, e la sua testa, una volta tagliata, fu portata a Maroboduo, il quale la inviò a Tiberio Cesare, perché fosse seppellita con onore [...]»

Fortunatamente per Roma, Maroboduo mantenne fede ai patti stipulati con Tiberio tre anni prima (nel 6). Questo gesto costò caro al sovrano marcomanno: pochi anni più tardi, nel 18, Arminio raccolse attorno a sé un'enorme confederazione di genti germane, lo sfidò e riuscì a sconfiggerlo in uno scontro campale, facendolo cadere in disgrazia. Ricordando quanto Maroboduo gli fosse rimasto fedele nel momento del bisogno, evitando che la disfatta di Teutoburgo si trasformasse in una nuova e ancor più devastante invasione germanica (come quella avvenuta un secolo prima da parte di Cimbri e Teutoni, tra il 113 e il 101 a.C.), Tiberio gli diede asilo politico a Ravenna, all'interno dei confini imperiali.

Ora, però, serviva una reazione militare immediata e decisa da parte dell'impero romano, che doveva impedire al nemico germanico di prendere coraggio e di invadere i territori della Gallia e magari dell'Italia stessa, mettendo a rischio non solo una provincia ma la stessa salvezza di Roma.

Arminio torna trionfante tra i Cherusci subito dopo la disfatta di Varo

In una situazione tanto drammatica, Augusto fu costretto anche ad arruolare liberti:

«[...] Augusto organizzò comunque le rimanenti forze con ciò che aveva a disposizione [...] arruolò nuovi uomini [...] tra veterani e liberti e poi li inviò con la massima urgenza, insieme a Tiberio, nella provincia di Germania [...]»

«[...] due volte soltanto arruolò i liberti come soldati: la prima volta fu per proteggere le colonie vicine dell'Illirico, la seconda per sorvegliare la riva del Reno. Erano schiavi che provenivano da uomini e donne facoltosi, ma egli preferì affrancarli subito e li collocò in prima linea, senza mescolarli ai soldati di origine libera (peregrini) e senza dar loro le stesse armi

«[...] (Tiberio Cesare) viene inviato in Germania, e qui rafforza le Gallie, prepara e riorganizza gli eserciti, fortifica i presidi e avendo coscienza dei propri mezzi, non timoroso di un nemico che minacciava l'Italia con un'invasione simile a quella dei Cimbri e dei Teutoni, attraversava il Reno con l'esercito e passava al contrattacco, mentre al padre Augusto ed alla patria sarebbe bastato di tenersi sulla difensiva. Tiberio avanza così in territorio germano, si apre nuove strade, devasta campi, brucia case, manda in fuga quanti lo affrontano e con grandissima gloria torna ai quartieri d'inverno senza perdere nessuno di quanti aveva condotto al di là del Reno [...]»

Ancora una volta, Tiberio dimostrava di essere un ottimo generale: era riuscito a frenare i propositi di una nuova invasione da parte delle genti germaniche vittoriose, e negli anni seguenti (dal 10 al 12) condusse egli stesso gli eserciti ancora al di là del Reno:

«[...] abbatté le forze nemiche in Germania, con spedizioni navali e terrestri, e placate più con la fermezza che con i castighi la pericolosissima situazione nella Gallia e la ribellione sorta tra la popolazione degli Allobrogi[7] [...]»

«[nell'11] [...] Tiberio e Germanico, quest'ultimo in veste di proconsole, invasero la Germania e ne devastarono alcuni territori, tuttavia non riportarono alcuna vittoria, poiché nessuno gli si era opposto, né soggiogarono alcuna tribù [...] nel timore di cadere vittime di un nuovo disastro non avanzarono molto oltre il fiume Reno [forse fino al fiume Weser].»

L'impatto sulla storia europea e mediterranea

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Lapide del centurione Marco Celio, morto nell'imboscata di Teutoburgo. Questo l'epitaffio in latino: Marcus Caelius Marci libertus Privatus Marcus Caelius Marci libertus Thiaminus Marco Caelio Titi filio Lemonia Bononia centurioni legionis XIIX annorum LIII semissis cecidit bello Variano ossa inferre licebit Publius Caelius Titi filius Lemonia frater fecit.[8]

La clades variana, considerata da molti autori moderni come una delle più grandi disfatte subite dall'impero romano (anche se certamente non ai livelli della battaglia di Canne, dove Annibale era penetrato sul suolo italico), potrebbe essere una spiegazione logica della rinuncia da parte di Augusto e dei suoi successori a nuove azioni di conquista dei territori germani compresi tra il Reno e il fiume Elba. Più in generale si possono dare anche le seguenti motivazioni:

  • l'età avanzata di Augusto ormai settantaduenne (età ancor più venerabile se rapportata all'età romana) e il suo profondo sconforto, che portarono l'imperatore a formulare nel suo testamento ufficiale (le Res gestae divi Augusti) un consiglio per il suo successore, Tiberio, affinché non intraprendesse altre spedizioni oltre i confini dallo stesso stabiliti (vale a dire i fiumi Reno e Danubio);
  • la natura del territorio germanico, ricoperto da immense foreste e acquitrini, con scarse risorse economiche di materie prime, ovviamente a quel tempo conosciute;
  • la fine della rivolta dalmato-pannonica, soli 5 giorni prima del triste evento della clades variana, sommossa che aveva richiesto l'intervento di ben 10 legioni e 4 anni di guerra sanguinosa;
  • una nuova rivolta in Gallia tra gli Allobrogi, con il rischio che si estendesse all'intera provincia;
  • l'ulteriore e necessaria conquista della Boemia, per completare il progetto di portare i confini al fiume Elba.

La spedizione di Germanico

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Lo stesso argomento in dettaglio: Spedizione germanica di Germanico.

Tiberio permise a Germanico, figlio del fratello scomparso Druso, di compiere tre nuove campagne nel territorio dei Germani, dal 14 al 16 (a capo di ben 8 legioni e relative truppe ausiliarie):

  • per riscattare in maniera definitiva l'onore di Roma, cercando di recuperare le tre aquile legionarie andate perdute nella battaglia di Teutoburgo. Una fu trovata da un subordinato di Germanico, Lucio Stertinio, che ritrovò l'aquila della Legio XIX recuperandola dai Bructeri nel 15;[9] il luogo dove era nascosta la seconda aquila venne svelato a Germanico dal capo dei Marsi fatto prigioniero dopo la battaglia di Idistaviso nel 16.[10] Non riuscì a recuperare la terza insegna, che venne trovata solo nel 41 da Aulo Gabinio Secondo presso i Cauci secondo Dione Cassio Cocceiano nella sua Storia romana;[11]
  • per permettere al figlio del fratello, Druso, di ripercorrere le orme del padre;
  • ma soprattutto per terrorizzare il nemico germanico dal compiere nuove e possibili invasioni future del suolo romano della Gallia;
  • forse anche per valutare se vi fossero ancora i presupposti di un'occupazione permanente della Germania.

Qualcuno degli storici antichi come Tacito, che aveva in grande simpatia Germanico, pensò che l'occupazione della Germania fosse stata fermata da Tiberio, quasi per una forma di gelosia nei confronti del figlio adottivo, Germanico. È però quasi del tutto certo che le motivazioni personali non abbiano potuto influenzare un uomo come Tiberio, cresciuto sui campi di battaglia, freddo e concreto in tutto ciò che faceva, mettendo a repentaglio un piano tanto importante per la salvaguardia futura dell'impero romano.

L'ultima campagna del 16 di Germanico

Le ragioni che portarono a questa decisione furono varie: in primo luogo il consilium coercendi intra terminos imperii di Augusto, ovvero la decisione di mantenere i confini dell'impero invariati, cercando di salvaguardare i territori interni e di assicurarne la tranquillità. Una nuova espansione in Germania avrebbe infatti necessitato dell'impiego di maggiori forze militari, e avrebbe esposto gli eserciti romani a nuovi rischi.[12]

Tiberio, seguendo i consigli di Augusto aveva preferito non ampliare i confini imperiali nel nord dell'Europa per i motivi sopra esposti, ma soprattutto per motivi di difficile integrazione agli usi e costumi romani nel breve periodo. Troppe volte negli ultimi 30 anni, infatti, era stato necessario intervenire per reprimere continue rivolte, soprattutto in Europa: dalla rivolta cantabrica del (29-19 a.C.) a quella terribile dalmato pannonica del 6-9, alle continue sollevazioni da parte dei Galli (in Aquitania, tra gli Allobrogi, e altre ancora).

La battaglia segna pertanto la fine dell'espansionismo romano in Germania, e il lamento di Augusto, di cui si parlava poc'anzi, può essere associato non solo alla sconfitta militare, di per sé grave, ma soprattutto alla di lui consapevolezza di non poter vedere la riduzione in provincia di tutti i territori germanici, compresi tra il fiume Reno e il fiume Elba.

Archeologia della battaglia

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Maschera da parata in ferro ricoperta d'argento appartenuta a un cavaliere romano, rinvenuta sul luogo della battaglia
Lo stesso argomento in dettaglio: Museo di Kalkriese.

Il sito della battaglia fu suggerito già agli inizi del Settecento da un certo Zacharias Goeze, teologo e filosofo tedesco, appassionato di numismatica, il quale aveva saputo di alcune monete romane rinvenute in località Kalkriese, a 135 km a nord-est del confine romano del Reno. Lo storico Theodor Mommsen nel 1885 era convinto che questa fosse la località della famosa battaglia, in base al numero di monete reperite sul sito; ma si è dovuto attendere il 1987 per averne conferma definitiva.[13]

Il materiale archeologico trovato sull'area della battaglia (su una superficie complessiva di 5 per 6 km), era di oltre 4 000 oggetti di epoca romana:

  • 3 100 pezzi militari come parti di spade, pugnali, punte di lance e frecce, proiettili utilizzati dalle fionde delle truppe ausiliarie romane, dardi per catapulte, parti di elmi, parti di scudi, una maschera da parata in ferro ricoperta d'argento, chiodi di ferro delle calzature dei legionari, piccozze, falcetti, vestiario, bardature di cavalli e muli, strumenti chirurgici;
  • un limitato numero di oggetti femminili come forcine, spille e fermagli a testimonianza della presenza di donne tra le file dell'esercito romano in marcia;
  • 1 200 monete, coniate tutte prima del 14;
  • numerosi frammenti ossei di uomini e animali (muli e cavalli);
  • e un terrapieno lungo 600 metri e largo 4,5 metri, che si estendeva alla base della colline di Kalkriese in direzione est-ovest, dove i Germani si appostarono aspettando le legioni, dal quale sferrarono il primo attacco, nel punto più stretto tra la collina e la Grande palude (ora ridotta a una depressione).

L'ultima campagna di scavo (estate 2016) ha riportato inoltre alla luce altri reperti tra cui otto rare monete d’oro con l’effigie dell’imperatore Augusto sul recto e, sul verso, i ritratti dei due nipoti, Lucio Cesare e Gaio Cesare, designati suoi successori, e raffigurati con scudo, lancia e lituo. Poiché il primo morì nel 2 e il secondo nel 4, le monete risalgono a pochi anni prima della battaglia e appartenevano con molta probabilità a un ufficiale dell’esercito che le avrebbe smarrite o sotterrate (sono state trovate a pochissima distanza l’una dall’altra) nell’imminenza dei combattimenti. Si tratta di una somma notevole: all’epoca con un solo aureo si poteva mantenere un’intera famiglia, a Roma, per un mese, quindi la somma equivaleva al sostentamento per circa un anno.[14]

La memoria della battaglia

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Gli imperatori romani che si susseguirono nei secoli decisero di non battezzare più altre legioni con il nome delle tre annientate a Teutoburgo (XVII, XVIII e XIX), forse anche perché solo due delle tre insegne perdute furono in seguito recuperate, onta incancellabile per la mentalità e la tradizione militare romana.[15]

L'Hermannsdenkmal

Durante il Medioevo la maggioranza della popolazione europea non era in grado di leggere e comprendere documenti redatti in lingua latina, inoltre si perse traccia di molti testi classici e della battaglia di Teutoburgo rimasero noti pochi riferimenti o accenni a essa, per cui il suo ricordo come evento bellico di primaria importanza venne meno, e ne rimasero vaghe eco nelle leggende che si tramandavano oralmente e che confluirono più tardi nella Canzone dei Nibelunghi e nel mito di Sigfrido.[16] Il ricordo della battaglia si conservò custodito per molto tempo soltanto all'interno dei monasteri, dove gli amanuensi copiavano i codici antichi, fino a quando, durante il periodo dell'Umanesimo e del Rinascimento, si sviluppò un nuovo interesse per la storia antica.

Nel 1425, in particolare, l'umanista italiano Poggio Bracciolini si recò in Germania, dove nell'abbazia di Hersfeld reperì il manoscritto, fino ad allora sconosciuto, di una delle opere di Tacito, la Germania, che descrive gli usi e i costumi delle antiche popolazioni germaniche.[17] Pochi decenni più tardi, grazie all'invenzione della stampa a caratteri mobili, la Germania poté diffondersi velocemente tra gli eruditi europei, che incominciarono a interessarsi alla storia dei rapporti tra Roma e le tribù che risiedevano a est del Reno. Nel 1470[17] fu ritrovata anche l'Epitome di Floro, che contiene precisi accenni allo scontro di Teutoburgo, e nel 1505 fu rinvenuto il testo degli Annales di Tacito, che narrano la ricognizione effettuata da Germanico sul campo di battaglia a sei anni di distanza dal momento dello scontro stesso.[18] Dagli Annales, gli storici poterono acquisire numerosissime utili informazioni sul personaggio di Arminio e sulla localizzazione del campo di battaglia. Nel 1515, infine, quando i manoscritti ritrovati negli anni precedenti erano già ampiamente diffusi e studiati approfonditamente, fu rinvenuta la Storia romana di Velleio Patercolo, contemporaneo della battaglia.[18]

Avendo a disposizione una simile mole di informazioni, gli umanisti si concentrarono sullo studio dell'episodio, soffermandosi in particolare sull'importante figura di Arminio, che divenne, in qualità di liberatore della Germania, eroe nazionale.[19] Nel periodo che va fino al 1910 ad Arminio furono dedicate oltre settanta opere di vario genere,[19] e lo storico Theodor Mommsen, sul finire dell'Ottocento, tracciò un preciso parallelismo tra il processo di unificazione della Germania promosso da Otto von Bismarck e la battaglia di Teutoburgo, che identificò come punto di svolta della storia mondiale.[20] Tra il 1841 e il 1875 fu infine dedicato ad Arminio il colossale Hermannsdenkmal, eretto nell'attuale foresta di Teutoburgo.[20]

L'importanza della battaglia di Teutoburgo fu celebrata dall'Impero tedesco e, successivamente, dal regime nazista come momento di nazionalismo tedesco, sebbene oggi si tenda ad attribuire una maggiore importanza ai rapporti di interscambio culturale tra Romani e Germani. Occorre anche sottolineare il fatto che Roma, non ritenendo vantaggiosa l'occupazione della Germania, totalmente coperta da foreste e paludi, preferì abbandonare il progetto di annessione. Molto probabilmente, un massiccio dispiegamento di truppe avrebbe alla lunga consentito ai Romani di civilizzare la regione compresa tra Reno ed Elba, ma ciò non accadde poiché le regioni erano povere e non arrecavano alcun vantaggio commerciale all'impero, a differenza della Dacia che disponeva di ricchi giacimenti d'oro.[21]

Letteratura antica

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L'impressione destata dal drammatico evento ha lasciato una traccia ben visibile nelle narrazioni storiche e letterarie degli autori dell'epoca:[22]

«[Arminio] tese ai nostri un'imboscata, in modo sleale, il quale copre il volto ispido con i lunghi capelli. Quello che seguiva sacrificava i prigionieri, ed un dio che li rifiutava [...]»

«[...] un'insidia armata [...] tra genti barbare, quando infranto l'accordo, la primitiva Germania tradì il comandante Varo, e del sangue di tre legioni bagnò le campagne [...]»

«[...] i Cherusci ed i loro alleati, nel cui paese tre legioni romane, insieme al loro comandante Varo, sono state annientate dopo un agguato, in violazione di un patto [...]»

«[...] un esercito fortissimo, il primo tra le truppe romane per addestramento, valore ed esperienza, fu accerchiato a sorpresa, a causa dell'indolenza del comandante, della falsità del nemico e dell'ingiustizia del destino [...] E così l'esercito romano, chiuso tra foreste, paludi e agguati, fu massacrato fino all'ultimo uomo da un nemico che aveva sempre battuto a suo piacimento [...]»

La battaglia di Teutoburgo è stata finora oggetto di tre adattamenti cinematografici.

  • Il primo in assoluto a parlare della battaglia è stato il film muto intitolato Die Hermannschlacht, realizzato tra il 1922 e 1923 dal regista Leo König; le riprese avvennero nei pressi dell'Hermannsdenkmal. Venne così duramente criticato nel febbraio del 1924, che il film venne ritirato e considerato perduto per sempre, quando in realtà ne è stata poi ritrovata una pellicola in un archivio cinematografico di Mosca, solo dopo il crollo dell'Unione Sovietica;
  • La seconda riduzione cinematografica della battaglia è apparsa nel 1966 con Il massacro della foresta nera (Hermann der Cherusker– Die Schlacht im Teutoburger Wald [2]). Frutto di una coproduzione italo-tedesca, il film fu realizzato dal regista italiano Ferdinando Baldi, che diresse contemporaneamente anche la pellicola All'ombra delle aquile, utilizzando lo stesso cast e gli stessi set;
  • Il terzo adattamento cinematografico, con lo stesso titolo Die Hermannschlacht del primo, è stato realizzato tra il 1993 e il 1995, grazie al lavoro di più registi di nazionalità tedesca e alla collaborazione di alcuni storici: le scene raffiguranti la battaglia sono state girate in Renania e nella stessa selva di Teutoburgo. Il film è apparso su DVD nel 2005 insieme con alcuni filmati di carattere documentario;[23]
  • Nel 2016 è stata poi prodotta una serie tv, Barbarians, che parla dei personaggi storici conosciuti come i peggiori nemici di Roma, e quindi anche di Varo e di questa battaglia;
  • Nel 2020 Netflix ha pubblicato la serie Barbari (in lingua originale Barbaren, proprio lo stesso titolo della serie del 2016), che narra la vicenda.

Nella cultura di massa

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  1. ^ Il sito della battaglia di Teutoburgo presso la moderna Kalkriese.
  2. ^ a b SvetonioAugustus, 23.
  3. ^ Julio Rodríguez González, Historia de las legiones romanas, pp. 721-722.
  4. ^ Ronald Syme, «Some Notes on the Legions under Augustus», Journal of Roman Studies 13, p. 25.
  5. ^ Velleio Patercolo, Storia romana, II, 120-121.
  6. ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 22-25.
  7. ^ Del 12.
  8. ^ AE 1955, 34.
  9. ^ Tacito, Annali, I, 60.
  10. ^ Tacito, Annali, II, 25.
  11. ^ Dione Cassio Cocceiano, Storia romana, su penelope.uchicago.edu, Libro LX, capitolo 8.
  12. ^ Mazzarino, L'impero romano, p. 140.
  13. ^ Wells, pp. 39-51.
  14. ^ Germania, nuove scoperte sul sito della battaglia di Teutoburgo, in Storie & Archeostorie [1].
  15. ^ Floro, Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum DCC Libri duo II, 38.
  16. ^ Wells, p. 24.
  17. ^ a b Wells, p. 26.
  18. ^ a b Wells, p. 27.
  19. ^ a b Wells, p. 28.
  20. ^ a b Wells, p. 29.
  21. ^ Wells, p. 31.
  22. ^ Ovidio, Tristia, III,12, 45-48; IV, 2, 1-36; Marco Manilio, Poema degli astri, 1898-1900; Strabone, VII (Germania), 1.4; Velleio PatercoloStoria romana, II, 119.
  23. ^ Cfr. video: parte 1, parte 2, parte 3, parte 4 e parte 5.

Voci correlate

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Fonti antiche

La seguente è una lista di tutti i riferimenti alla battaglia presenti nei testi dell'antichità. Il resoconto fatto da Cassio Dione Cocceiano nella Storia romana risulta il più dettagliato, sebbene l'autore sia vissuto almeno due secoli dopo gli eventi. Egli, fornendo dettagli cui nessun autore precedente aveva mai fatto menzione, rende il resoconto sospetto dal punto di vista storico, quasi fosse piuttosto una rievocazione letteraria.

Fonti storiografiche moderne
  • C.G. Clostermeier, Wo Hermann den Varus schlug, Lemgo, Meyer, 1822.
  • Massimo Bocchiola e Marco Sartori, Teutoburgo. La selva che inghiottì le legioni di Augusto, Milano, Oscar Mondadori, 2014, ISBN 978-88-04-63577-2.
  • Autori Vari, L'impero romano da Augusto agli Antonini, in Cambridge Ancient History, Milano, 1975.
  • (EN) Maureen Carroll, Romans, Celts & Germans: the german provinces of Rome, Gloucestershire & Charleston, 2001, ISBN 978-0-7524-1912-1.
  • (ES) J.R.Gonzalez, Historia del las legiones romanas, Madrid, 2003, ISBN 978-84-96170-02-5.
  • Michael Grant, Gli imperatori romani. Storia e segreti, Roma, Newton Compton, 1984.
  • Mario Attilio Levi, Augusto e il suo tempo, Milano, 1994, ISBN 978-88-18-70041-1.
  • Santo Mazzarino, L'impero romano, vol. 1, Bari, Laterza, 1976.
  • Elena Percivaldi, Arminio, alle radici di un mito controverso, in Terra Insubre, n. 51, 2010, pp.  27–34.
  • (DE) Michael Sommer, Die Arminiusschlacht: Spurensuche im Teutoburger Wald, Stuttgart, 2009, ISBN 978-3-520-50601-6.
  • (EN) Pat Southern, Augustus, Londra & New York, 2001, ISBN 978-0-415-25855-5.
  • Antonio Spinosa, Tiberio: l'imperatore che non amava Roma, Milano, 1991.
  • (EN) Ronald Syme, Some notes on the legions under Augustus, vol. XXIII, Cambridge, Journal of Roman Studies, 1923.
  • Ronald Syme, L'aristocrazia augustea, Milano, BUR, 1993, ISBN 978-88-17-11607-7.
  • (EN) C.M. Wells, The german policy of Augustus, in Journal of Roman Studies, Oxford University Press, 1972, ISBN 0-19-813162-3.
  • Peter Wells, La battaglia che fermò l'impero romano. La disfatta di Q. Varo nella Selva di Teutoburgo, Milano, il Saggiatore, 2004, ISBN 88-428-0996-9.
  • Peter Wells, La battaglia che fermò l'impero romano. La disfatta di Q. Varo nella Selva di Teutoburgo, Milano, il Saggiatore, 2004, ISBN 88-428-0996-9.
  • (DE) Ludwig Wamser, Die Römer zwischen Alpen und Nordmeer, Monaco di Baviera, 2000, ISBN 978-3-8053-2615-5.
Riviste
Romanzo storico

Altri progetti

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Collegamenti esterni

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