Diritto libero

Il movimento per il diritto libero (in ted. Freirechtsbewegung o Freirechtsschule) fu una corrente di pensiero giuridico-culturale sviluppatasi soprattutto in Germania, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento.

Tale movimento - denominato anche del giusliberismo ed in cui possono ricomprendersi altri indirizzi, quali la giurisprudenza sociologica e la giurisprudenza degli interessi - annovera tra i suoi maggiori esponenti Ernst Fuchs, Carl Schmitt, Eugen Ehrlich, François Gény e Hermann Kantorowicz. Tali autori ritengono che in ogni ordinamento giuridico esistano, accanto alle norme di fonte legislativa, anche norme extralegali, che il giudice può applicare ogni volta che il testo legislativo si riveli non rispondente alle concrete esigenze del caso. Il giurista ha non solo il potere, ma anche il dovere di ricercare liberamente il diritto e di considerare fonte di quest'ultimo anche fatti (ad es. i rapporti sociali) che teorie più restrittive (formaliste o giuspositiviste) considerano non normativi. Il diritto libero si origina spontaneamente dall'attività dei consociati e dalle decisioni dei giudici e si colloca accanto al diritto dello Stato. In particolare, spetta al diritto libero il compito di colmare le inevitabili lacune del diritto positivo, quando esso si riveli inidoneo a fornire una guida certa per la risoluzione di una specifica controversia.

Il “diritto libero” si colloca così in netta antitesi culturale con le posizioni tipiche del giuspositivismo[1]: ne fu espressione il “sistema della formulazione giudiziaria del diritto” che affidava all’interprete un vasto potere creativo. Si attribuiva all'interpretazione «il compito di applicare la norma scritta rinvigorendola con le esigenze della società, lasciandosi investire dal “vento che irrompe dalle finestre”, sino a modificare la stessa norma: così annullando la distinzione tra il momento della creazione del diritto e quello della sua applicazione. Era, questo, l’indirizzo giurisprudenziale che si ispirava alle teorie del “diritto libero”, ampiamente diffuse nella Germania nazista»[2], ma di cui Piero Calamandrei trovò le tracce anche nella Russia staliniana «dove, grazie ad una riforma del 1936, il giudice era chiamato ad interpretare la legge ispirandosi "alla politica generale del governo" e dove era stato abrogato il principio “borghese” del nullum crimen sine lege»[3].

«Qui il giudice non importa che si affatichi a studiare le leggi, perché le leggi non ci sono: occorre soltanto che in qualsiasi evenienza, anche quando si tratta di giudicare sulla rivendicazione di una gallina, egli sia pronto a interrogare la storia»

Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, il concetto di diritto libero è stato fortemente criticato in quanto, secondo alcuni, costituì la base per un pericoloso personalismo giudiziario negli ordinamenti dei regimi dittatoriali che si affermarono fra le due guerre[4], dimostrandosi all'atto pratico incapace di fornire le garanzie tipiche del principio di legalità e di tassatività, possibili soltanto in un contesto fortemente orientato al diritto positivo.

  1. ^ "Proprio nella presenza di clausole generali il movimento del diritto libero individuava la prova più chiara dell’incompletezza del diritto statuale, ritenendo che la loro applicazione consentisse all’opera creativa della magistratura di allentare la rigidità del tessuto normativo per adeguarlo alla storia e alle consuetudini del popolo. Suscitando, ovviamente, accese reazioni critiche da parte dei giuspositivisti": P. Rescigno e S. Patti, La genesi della sentenza, Bologna, Il Mulino, 2016, p. 14.
  2. ^ "Dal punto di vista della figura giuridica, il totalitarismo fascista è incarnato nello Stato in quanto tale, mentre il nazismo per contro si incarna nel Volk, il popolo. Ciò comporta delle diversità operative, perché ad esempio nel caso tedesco il diritto prevale sulla legge dello Stato e la giurisdizione vi applica, come diritto libero ma ispirato al sentimento diretto del popolo, le direttive che si affermano scaturenti da questo; mentre nel caso italiano è la legge a essere nominalmente la fonte suprema e la magistratura vi è di massima vincolata. Alla radice di questa differente configurazione sta probabilmente, oltre l’importanza della statualità affermata in precedenza dal liberalismo, il perseguimento dell’occultamento legalitario voluto dal fascismo": U. Allegretti, Storia costituzionale italiana. Popolo e istituzioni, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 88-89.
  3. ^ Paolo Borgna, La magistratura resistente, Questione giustizia, 11 luglio 2019.
  4. ^ Franco Marcovaldi, L'arte del giudizio/3, Intervista a Francesco Saverio Borrelli, la Repubblica, sabato 5 gennaio 2013, p. 39. “Conversando con lui, vengo a sapere il titolo (bellissimo) della sua tesi di laurea “sentimento e sentenza”, che nella giustapposizione di due termini almeno in apparenza antitetici, ci offre il giusto avvio per intavolare questa nostra discussione, il cui cuore sintetizzerei così: il giudice è soltanto un sacerdote passivo della Legge o quando emette la sentenza ci mette inevitabilmente del suo? Afferma Borrelli: “Dire che la sentenza è una esecuzione asettica e meccanica non ha nessun senso. Dire che è frutto di un processo creativo, è altrettanto sciocco e pericoloso: la scuola del diritto libero è fiorita non a caso ai tempi di Hitler. La mia tesi intendeva sollevare questo problema e cercare un punto di equilibrio ragionevole, secondo un'angolazione che allora non era di moda. Mi rendo conto che può sembrare un tantino provocatorio l'accostamento di due termini, “sentimento” e “sentenza”, che, pur provenendo da una origine linguistica comune, il verbo sentire, nell'uso indicano due referenti divaricati: il primo, connotato da un'aura emotiva, intuitiva, irrazionale o pre-razionale, il secondo, connotato da severità, rigore logico, autorevolezza o autorità”.
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